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Quando eravamo giornalisti
La lunga fuga di Marco Pantani

Quando eravamo giornalisti <br> La lunga fuga di Marco Pantani

di Franco Fregni

“Dicono che ci sia in Romagna un ragazzino fenomenale. In salita dà già la paga ai professionisti”.

La prima volta che sentii parlare di Pantani fu durante un allenamento con altri corridori.

A quel tempo vivevo una crisi personale tipica del passaggio dall’adolescenza a future età. Dico future età perché la maturità appartiene solo a saggi e santi. Non riuscivo a capire quale sarebbe stato il mio posto nel mondo. Avevo terminato gli esami all’Università in anticipo. Quindi avevo un bonus di tempo per preparare la tesi, un assurdo lavoro sul giornalismo americano di sinistra durante gli anni della Grande Depressione. Collaboravo col giornale ma in realtà facevo il corridore.

La carriera calcistica che doveva portarmi alla conquista della Coppa del Mondo con la maglia azzurra era terminata in continui ricoveri in ospedale, settimane in casa con ghiaccio e infiltrazioni e in un infinito pellegrinaggio tra diversi luminari che arrivavano sempre alla stessa diagnosi: “‘Sto ginocchio non c’è più e c’è poco da fare”. Uno mi disse: “Tieni il tono muscolare, vai in bici, la medicina avanza, magari tra un po’ si trova la soluzione. Gli americani stanno facendo miracoli”. I miracoli non arrivarono nell’immediato, ma il consiglio si rivelò un regalo prezioso.

In bici c’ero nato come tutti i padani, in bici a 10 anni, su una tratta ferroviaria abbandonata, il giorno della cresima, ebbi la prima presa di coscienza spengleriana. Il sogno e la disciplina che imponeva quella pratica posero le basi di una rinascita.

Avevo tentato anche con l’analisi che fu in parte utile perché mi levai due o tre strati di pelle. Ma l’esperimento si concluse quasi subito. Il dottore mi disse: “Lei è consapevole della sua pazzia, quindi è perfettamente sano. Aggiungo che è consapevole anche della pazzia che ci circonda, e questo è un problema. Si tranquillizzi, non si drizza il legno storto dell’umanità”.

Il che fa il paio con gli insegnamenti attuali del mio amico psichiatra Ugo: “La depressione non la curo a tutti, al contrario, ad alcuni la prescrivo, come necessaria alla salute mentale”. 

In realtà, come sempre, la vera salvezza furono gli occhi, straordinariamente belli e infinitamente buoni della mia compagna.

Mentre procedeva questa strana “carriera” di corridore, che mi portò in bicicletta in giro per mezzo mondo, mentre passavo giornate intere in bici, ammirando lo splendido fluire del creato in posti magici che alleviavano il peso dell’anima, continuavo a sentire parlare di quel corridorino romagnolo, magro magro, che quando la strada saliva, salutava la compagnia e andava, andava…

Il mio ‘preparatore atletico’ era il dottor Ferrari, poi tristemente famoso per il caso Armstrong. Era il pupillo del celebre Conconi e arrivai a lui attraverso conoscenze di famiglia. Il suo studio privato appena fuori Ferrara era frequentato dal gotha del ciclismo mondiale. Con me Ferrari fu corretto: mi fece fare ogni tipo di esame e mi sottopose a ogni tipo di prova, poi sentenziò: se ti alleni, mangi, dormi come ti dico puoi arrivare qui (non tedierò il lettore con parametri di watt e soglie), se vuoi andare oltre… e lasciò in sospeso il discorso. Risposi pronto “ok, va bene il limite” e non ci fu bisogno di dire altro. La potenza del mio “motore”, grazie alle sue regole, ai suoi consigli e a una vita monastica cresceva di giorno in giorno. Come si dice in gergo “avevo la manetta del gas”. Tutto finì in un pomeriggio di primavera su una salita della fondovalle del Panaro. Dopo lunghe ricerche avevo trovato il pendio perfetto per le “ripetute” in salita (pendenza costante del 7%) e ogni giovedì, il giorno dell’allenamento più duro, con la neve e il solleone, mi sottoponevo alla tortura. Via in progressione fino alla soglia, la soglia del dolore, e poi “avanti tutta” “a tenere” per interminabili minuti, per portare il male un po’ più un là. Così per tre, cinque, dieci volte… sù e poi di nuovo giù. Una contadina, seduta su una panca di pietra di una casa colonica non più di pianura ma non ancora di montagna, osservava il sacrificio. All’ennesimo passaggio si alzò e in diletto mi disse: “Baghaet, mo’ cum’èla cat toca tuta ‘sta fadiga? tam par nostar sgnor…” 

Non avevo una risposta, voltai la bici e smisi con tutto quello. Un’altra guarigione. Smisi con le medicine, con le diete, con la misurazione quotidiana di peso, pressione e cuore, con le analisi complete di urina e sangue ogni 15 giorni, Smisi di fare il corridore. Da quel giorno, e sono passati più di trentacinque anni, non sono più andato dal dottore, non ho più fatto nessuna dieta, nessuna misurazione, nessuna analisi e non ho più preso alcuna medicina (esclusa l’aspirina per la febbre e il vaccino obbligatorio per il Covid). 

La mia “carriera” di corridore era chiusa. Avevo discusso la tesi, ero stato ammesso alla scuola di giornalismo di Bologna, e dopo un paio di stage fui assunto da un giornale del Nord. Continuavo ad andare in bici assieme alla mia compagna che era diventata molto più forte di me, andavo ancora veloce e mi allenavo spesso con altri corridori, ma era diventato tutto tranquillo: non c’era più il tormento, ma neppure la magnifica esaltazione che solo i corridori e i giocatori provano.

Il giornale mi mandò a seguire le tappe dolomitiche del Giro d’Italia e li assistetti all’Epifania di quel ragazzino romagnolo di nome Marco Pantani. Ero a Merano il giorno in cui il mondo scoprì quello che sarebbe diventato “il Pirata”. Prima di quel quel momento Pantani era “solo” uno spelacchiato giovanotto che andava il doppio degli altri in salita. Poi divenne un idolo globale. I vecchi suiveurs sapevano già chi fosse Pantani, gli inviati che seguivano il Giro perché “faceva curriculum”, mi vennero a chiedere chi fosse quello strano tipo perché gli avevano detto che venivamo dalle stesse zone (anche se Emilia e Romagna non sono proprio la stessa cosa…)

Al termine della tappa, sotto il palco della premiazione e prima delle interviste ufficiali con Pantani scambiammo due chiacchiere, Dopo i miei complimenti, sentendo il mio accento mi chiese di dove fossi, accennammo ad amici comuni. Poi iniziò il tourbillon che per lui durò dieci anni.

Da quel 4 giugno 1994 Pantani divenne uno dei grandissimi personaggi sportivi della cronaca, non solo sportiva in Italia.

Il 5 giugno 1999, giorno in cui fu inflitta a Pantani la ferita mortale a Madonna di Campiglio, lavoravo ancora al Nord, dopo vari su è giù per l’Italia. Quella mattina ero andato a veder passare il Giro, Poi arrivò la notizia che mandò in tilt le redazioni. Per noi al giornale divennero pagine su pagine, indiscrezioni su indiscrezioni. Quello che a prima vista sembrava un tradimento diventò poi un inganno. I fatti sono noti a tutti: l’ingiustizia oggi appare evidente, sul come e il perché si discute ancora. In quell’epoca, con la famosa norma sull’ematocrito, il doping era stato in pratica legalizzato È orribile dirlo, ma l’Epo, che aveva creato tanti problemi di salute agli atleti quando era stata introdotta, era poi usata come una sorta di integratore. Bastava stare “sotto il 50” di ematocrito nelle analisi del sangue. Molti si gestivano e si controllavano autonomamente. Pantani la sera prima era sotto il 50 di ematocrito, il dato che uscì dall’esame sorprese tutti. Su perché fu registrato un dato al di sopra della norma esistono diverse teorie, che talvolta sfociano nel complottismo. Il dato di fatto è che Pantani fu fermato per tutelare la sua salute e non per doping, quelle erano le regole.

Cinque anni dopo l’Epifania di Merano, a Madonna di Campiglio iniziò la Passione. 

Nel Getsemani di Campiglio Marco iniziò a morire, probabilmente il Giuda che lo tradì era lì vicino per un bacio.

Poco dopo iniziai a fare il direttore in Romagna. Le vicende di Pantani, per noi che avevano anche una redazione con diversi giornalisti a Cesenatico, erano pane quotidiano. Tra tentativi di resurrezione e nuove grane giudiziarie ci occupavamo tutti i giorni del Pirata. Sapevamo tutto, pure troppo, perché alcuni giornalisti e collaboratori che lavoravano con me ed erano stati amici d’infanzia e di scuola di Pantani. Sapendo tutto capitarono un po’ di grane. La più grottesca fu con la Gazzetta dello Sport. Mi arrivò una telefonata infuriata dai vertici del giornale, ci veniva contestata un’intervista in cui, era il tardo 2003, il Pirata aveva dichiarato che non avrebbe mai più corso. All’epoca i media nazionali, che naturalmente e giustamente difendono i loro interessi, non potevano credere che Pantani avesse dichiarato ad un giornale locale che avrebbe smesso di correre, visto che si favoleggiava di un suo possibile rientro al Giro. Poi vennero Cuba, il terribile periodo tra il Natale 2003 e l’inizio del 2004. 

Su tutti questi anni e in particolare sul questo drammatico finale dell’esistenza di Pantani sono stati versati fiumi d’inchiostro in articoli, romanzi, serie tv, pièces teatrali e atti giudiziari. 

Il giorno di San Valentino del 2004 si respirava in redazione uno strano nervosismo. Le frequenze radio delle forze dell’ordine, che illegalmente e regolarmente ascoltavamo, erano state criptate, il che succede solo in situazioni molto gravi. Il “nerista”, nel tardo pomeriggio, mi avvertì che aveva capito che era successo qualcosa di “grosso” che riguardava un importante personaggio, ma non aveva ancora notizie certe. In prima serata arrivarono prima indiscrezioni e poi certezze: Pantani era stato trovato morto in un residence, a pochi metri da dove abito. L’Ansa lanciò la notizia verso le 22,45. A quell’ora noi avevamo metà redazione sotto il residence. Richiamai al lavoro alcuni colleghi, facemmo un grande lavoro in un clima d’incredulità e dolore e uscimmo con una copertura notevole rispetto al tempo che avevamo a disposizione per arrivare in edicola il giorno dopo. 

Ero angosciato per la morte di quel povero ragazzo e scrissi un articolo titolato “Non si uccidono così anche i cavalli?” parafrasando il titolo di un film sulla Grande Depressione, una critica a sistemi che sfruttano i sognatori bisognosi.

Usai il verbo “uccidere” ed ebbi la consapevolezza che fosse quello giusto. Il giorno dopo mi chiamò un amico ex professionista che non sentivo da tempo. Mi disse che avevo intuito la verità e che il pezzo era bello. Piangemmo insieme quello che per noi era ancora un ragazzino.

I fiumi d’inchiostro diventarono oceani. Il giorno del funerale a Cesenatico un intero popolo era sopraffatto dal dolore. Seguii la cerimonia dentro e fuori la chiesa cercando punti sopraelevati per guardare il magnifico e terribile spettacolo di migliaia di persone in lacrime, lacrime sincere. Un silenzio profondo sovrastava quella città solitamente solare, ridente ed allegra. Stavo assistendo alla nascita di un mito immortale.

Le indagini e il processo mi annoiarono, il mito esclude la burocrazia.

 

Quando vai in bicicletta c’è un momento in cui il protagonista si sente catapultato nell’epica: è la fuga.

Vincere è bello, ma andare in fuga è tutto. 

Vincere è statistica, andare in fuga racconta chi sei.

E’ il tuo pensiero che scappa da quello della massa, è una tua idea del mondo che si afferma. Se sei in fuga con pochi altri si crea una solidarietà che durerà tutta la vita perché in quel momento, su quella salita, in quella discesa, contro il vento, hai diviso il pane e il vino con altri coraggiosi, e per loro saresti disposto a morire. Se ti riprendono ricevi e dai pacche sulle spalle, qualcuno ti sfotte perché sei uscito dal branco e “non si fa”, perché ci sono delle “regole da rispettare”. Ma senti che tutto quello in cui hai creduto si è realizzato, anche se per poco. E quando vinci dopo una fuga sai che il mondo potrebbe essere diverso.

 

Marco è andato in fuga da ragazzino e non è mai tornato in gruppo.

 

Ps: ho molto riflettuto su quello che ho visto e sentito in questi anni riguardo la vicenda Pantani; ho le mie certezze, ma non ho nessuna prova. Le varie sentenze su tutte queste vicende hanno già detto tutto ed è difficile che vengano rimesse in discussione.

Ma tutti sappiamo che esistono tre verità: la verità storica, la verità giudiziaria e la Verità.

Per quello che mi riguarda a Madonna di Campiglio Pantani fu “punito” perché non accettava regole non scritte del sistema che regola “le corse”. Fu un gesto mosso dall’invidia di piccoli personaggi, meschinerie che inflissero una ferita mortale sul morale e sullo strano codice etico che è proprio di ogni campione.

Per quel che riguarda la morte di Pantani sono da sempre convinto che si tratti di un omicidio. Marco aveva sempre a disposizione grandi quantità di contanti e questi contanti non furono mai trovati. Nell’inchiesta non se ne parla neppure e non è mia intenzione mettere in discussione il lavoro degli inquirenti e dei giudici, hanno fatto tutto quanto era nelle loro possibilità e capacità e da questo lavoro è scaturita una verità giudiziaria. Ma mia verità e che quei contanti fossero il vero obiettivo di alcuni malvagi. Se Pantani sia stato ucciso quando già stava male per aver assunto troppa droga e farmaci, se fosse tutto premeditato o se Pantani in cuor suo volesse quella fine non riesco a dirlo. E in fondo conta poco. Lui è morto ed è rinato come mito. E questo dovrebbe bastare a noi mortali.

 

(© 9Colonne - citare la fonte)